Nintendo Super NES
Carrier Aces
Gametek | Synergistic | Steve Coleman | Robert Clardy | Steve Curran | Michael Ormsby | Kirt Lemons | Rod Humble | William B. McCormick
01 03 2015
Una delle critiche più frequenti nei confronti delle vecchie console (si parla del periodo pre-Playstation, per essere chiari) riguardava la poca diversificazione del parco giochi. Platform a riempire interi magazzini, sparatutto come se piovesse, picchiaduro in tutte le salse, qualche celebre puzzler, una spruzzata di giochi di ruolo quando la moda si è imposta, le canoniche simulazioni di sport, ma poco più, soprattutto se ci si spingeva al di là del target adolescenziale. Tutto vero. Ma è anche vero che esisteva un sottobosco di titoli alternativi, spesso indirizzati a un pubblico più adulto. Questo è tanto più evidente nel caso del Super Nintendo che, fin dagli esordi, ha mostrato una certa vocazione al bizzarro e al diverso all'interno del suo catalogo. Carrier Aces (1995) ne è un esempio. Già di simulazioni di volo ce ne erano poche su console, in quei lontani tempi, ma di dedicate al passato remoto ce ne devono essere state veramente poche (me ne ricordo una, analoga ma non identica, con i biplani della guerra 15/18, ma al di là di questo poco o niente). Il che rende già di per sé interessante questa ricostruzione del conflitto mondiale nel Pacifico post-Pearl Harbour, nonostante i suoi bravi limiti.
Limiti che si manifestano con solerzia già a partire dal menu di partenza, tra opzioni concesse e costruzione di gioco vera e propria. Solo otto missioni, inclusa una di training, poco o niente caratterizzate dal punto di vista storico o cartografico, otto caccia e cacciabombardieri giapponesi e americani, tra Mitsubishi, Nakajima e Douglas, tutti apparentemente fedeli agli originali ma in realtà poco diversificati, con l'unica vera variante che consiste nell'avere postazioni di fuoco sia in testa che in coda e con gli aerei meno attrezzati che si rivelano più manovrabili. Per fortuna viene concessa un'alternanza tra le fasi di attacco aereo a postazioni varie e quelle in cui ci si incarica della difesa contraerea, con una sequenza modificabile senza che questo comprometta lo svolgimento del gioco. Non è che ci si ritrovi con molta carne al fuoco, comunque, se si vuole affondare i denti in qualcosa di sostanzioso. La longevità resta infatti affidata soprattutto alla difficoltà delle fasi aeree, più intricate, con apparecchi controllati dal computer che si comportano in modo irreprensibile e i vostri caccia che fanno invece una fatica boia a effettuare le manovre più ovvie, come per esempio la virata per mettersi in coda agli avversari, e che vengono spesso danneggiati negli strumenti più essenziali, con conseguenze fatali.
La questione si complica ulteriormente per il buon Carrier Aces, nel senso che la superficialità diventa più evidente quando si va a esaminarne con attenzione la realizzazione tecnica. Già le migliori simulazioni di volo a 16 bit (pensiamo a quelle di Electronic Arts, ancora basate su una tridimensionalità primitiva) non brillavano certo per dettaglio, ma qui la gestione del 3D, affidata al solito scorrimento dei fondali in Mode 7, resta su livelli bassi, con scenari vuoti e scarsa definizione. L'audio, come accade in altri giochi di questo tipo, svolge poi un ruolo di puro contorno e non rappresenta un fattore decisivo. Il pericolo mortale, rappresentato in questi casi dalla monotonia anche grafica, non viene insomma evitato da Carrier Aces, che non poteva contare su un hardware adeguato all'impresa e su una produzione di prima fila (il team statunitense Synergistic con William McCormick, già presente in titoli certo non trascendentali come Air Cavalry e Super Battleship, come produttore). La situazione si risolleva in parte grazie alla modalità per due giocatori, più equilibrata, e alla semplicità d'approccio (il ricorso al libretto non è obbligatorio) che porta una simulazione potenzialmente complessa come Carrier Aces nelle schiere dei titoli immediatamente giocabili, il che non è cosa da poco. Per giustificarne l'esistenza, poi, basterebbe la sua quasi totale unicità, come dicevamo.
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