Bisboch ha una grande forza: un passato vacuo, inutile
e decadente, che gli permette di vivere anche il presente,
e presumibilmente anche il futuro, in modo vacuo, inutile
e decadente. Ulteriormente provato dalla profonda consapevolezza
di tutto ciò, Bisboch vive in un limbo simile a una reverie
proustiana, ma con meno madeleine e molta più carne avariata nel
frigo, perché il tempo passa, Bisboch, e tu ancora qua con 'sti
retrogiochini del menga.
Commodore 64
Encounter
Novagen | Paul Woakes
20 01 2015
NEMICI. Questo il laconico nome con cui era possibile acquistare Encounter presso le edicole italiane. Lo si trovava all'interno della cassetta pirata 'Game 2000 n.2 - Tutto C64' pubblicata a fine gennaio 1985. Sala Giochi, Monorotaia, Nemici, Bruce Lee e Caduta Massi. Ovvero Lazy Jones, Suicide Express, Encounter, Bruce Lee e Boulder Dash. Sicuramente le 5000 lire meglio spese della mia vita.
Nemici, dicevamo. Ma anche Encounter è bello asciutto, come titolo. Anzi, ancora più secco, astratto, privo di connotazioni. Incontro. Di che tipo? Di tipo che c'è poco da discutere, gli alieni sono determinati a ucciderci, fosse anche solo perché noi siamo determinati a uccidere loro. Chi è l'alieno per chi? Chi aliena l'alieno? Sono così oniriche, surreali, le situazioni in cui venivamo posti dai videogame degli albori. Come nei sogni, non siamo sicuri di come ci siamo finiti, in quella situazione. Sappiamo solo che ci siamo. E che dobbiamo soddisfare determinati requisiti per tirarcene fuori. Forse. Se il designer ha deciso che esiste un'uscita.
In Encounter non c'è uscita, solo infiniti salti dimensionali da un pianeta a un altro. Veniamo depositati sul piano di gioco. La visuale è in soggettiva. Dal suono che emettiamo spostandoci dobbiamo avere dei cingoli. C'è un radar. Sentiamo suoni strani, inizialmente indecifrabili. Sono i nemici. Anzi, IL nemico, uno per volta. Scopriremo che sono sostanzialmente forme geometriche che si aggirano velocissime in questo mondo dall'orizzonte infinito, la cui monotonia è spezzata esclusivamente da monoliti ora neri, ora maròn, ora insomma di vari colori. I nemici vi sparano. Voi sparate a loro. I monoliti fungono da respingenti per i proiettili, qualora voleste giocare di sponda. O farvi esplodere voialtri, di sponda.
Avversari diversi hanno approcci radicalmente diversi. C'è quello che cerca di seccarvi col contatto diretto fiondandosi 'in your face'. Quello che sta abbastanza per i fatti suoi. Quell'altro che vi fa la posta da lontano. Quello che fa 'tic tic tic' e poi esplode in una quantità di proiettili tale che il povero Commodore incespica come non gli era mai capitato prima d'allora. Fatene fuori un certo numero e nel pianoro si aprirà un portale. Entrateci. Sparatevi nell'iperspazio a tutta birra evitando frontali con gli sferoidali abitanti del medesimo.
Questo è Encounter che, essendo uscito nel 1984, risultava ai giocatori immediatamente lampante per le sue qualità di clone di Battlezone di Atari. Solo che è un clone migliore dell'originale. Sì. Sul serio. Nonostante Battlezone, in sala giochi, usasse la grafica wireframe vettoriale, che si sa quanto invecchi bene se contrapposta ai pixel. Ma Paul Woakes, il creatore di Encounter, la sapeva lunga, lunghissima. In primo luogo, costruì un motore di gioco pseudotridimensionale in assembly di fulminante velocità: non s'era mai visto niente del genere su Commodore fino a quel momento, e non si sarebbe visto fino all'avvento di quell'altro mostro di programmazione che era Chris Butler. In secondo luogo, migliorò il ritmo di Battlezone e ne stravolse le intenzioni di design atariane: non più un sedicente simulatore bellico dai controlli poco agevoli, ma un arcade scarno e brutale da gestire con un joystick e un pulsante, la dotazione base del 64. Engine veloce, sistema di controllo immediato, un sistema di segni e feedback visivi estremamente pulito, in grado di comunicare in ogni momento al giocatore quello che stava succedendo ben oltre l'area di gioco visibile, complice un radar 'for dummies'. La verità è che quello che a occhi pigri poteva sembrare un clone di Battlezone, era in realtà l'antesignano, per ritmo e senso del campo di battaglia, di Doom e degli sparatutto in soggettiva a venire. E poi quanta pulizia, quanti tocchi di classe nascosti tra le pieghe degli scarni elementi. I frammenti di un nemico esploso che vi rimbalzano addosso con un tonfo sordo. I portali che possono essere usati in maniera poco ortodossa come warp per raggiungere i livelli avanzati. Quella sensazione che l'arena dell'incontro sia fisica, tangibile, siamo là, nel mezzo di una roba che manco esiste ed è più vera della nostra cameretta da sessantaquattristi imberbi sperduti alla fine del ventesimo secolo.
È quando il giocatore non può più trovare scuse per la propria inettitudine che il game designer ha vinto. No, caro, non è il gioco, il problema: sei tu che non hai riflessi abbastanza pronti. Fu pertanto quando mi restò in mano lo stick, divelto dalla sua base, per un tentativo angosciatissimo di schivare un romboide, che capii come Paul Woakes avesse vinto. Stavo nascendo come videogiocatore vero, perennemente coinvolto in una impossibile partita a scacchi contro una macchina con cervello umano, quello del suo sviluppatore. E anche per Woakes Encounter era poco più di un inizio, il vagito di una visione videoludica alta e illuminata, che avrebbe portato a Mercenary e Damocles.
[Bisboch]