Nintendo Super NES
Donkey Kong Country 3: Dixie Kong's Double Trouble
Nintendo | Rare | Andrew Collard | Paul Weaver | Tim Stamper | Mark Wilson | Trevor Attwood | Steve Horsburgh | Brendan Gunn
14 09 2014
Non c'è una ragione logica del perché il concetto di platform con un po' di cervello sia stato a lungo un fatto inusuale. C'è invece una logica commerciale nel riproporre lo stesso gioco più volte, via remake, sparigliando le carte per quello che si può fare, senza rischi aggiunti. Le cose stanno così e ancora di più così stavano vent'anni fa, quando l'industria del settore era ancora, tutto sommato, in fase di allegra superficialità. Non meraviglia affatto, quindi, l'esistenza di un terzo episodio di Donkey Kong Country su una console come il Super Nintendo, già graziata da una montagna di giochi analoghi, spesso fotocopia di sé stessi e per lo più orgogliosamente decerebrati. Esistenza abbastanza superflua, ovviamente, tanto più che Dixie Kong's Double Trouble venne alla luce quando già era in commercio, nel 1996, il Nintendo 64, per non parlare di PlayStation e Saturn.
Il platform medio dei tempi non comportava, guardiamo in faccia la realtà, concetti particolarmente complicati e se ne faceva un vanto. Solo che dopo un decennio o più di ortodossia a otto e sedici bit e sotto l'influenza delle nuovissime console, tutti - compresi i programmatori Rare - sentivano la necessità di un minimo di revisione dei canoni. Quelli, tra l'altro, codificati in tempi molto lontani da Schigeru Miyamoto, qui ancora presente come produttore 'ad honorem'. Ed è forse stato lo stesso Miyamoto, reduce dall'appena terminata rivoluzione di Mario 64, che ha cercato di iniettare qualcosa di nuovo anche in questa ennesima avventura degli scimmioni Nintendo, per quel che si poteva fare. Cioè molto poco. Così, per dare profondità a un gameplay che resta in linea con quello dei due episodi precedenti, vengono introdotti per la prima volta una serie di elementi cari ai giochi di ruolo, come i negozi in cui comprare specifici oggetti e una mappa dove si può migrare in libertà tra i vari livelli. Solo che il cuore di questi livelli resta identico a quello che avevamo già conosciuto in Donkey Kong Country e i movimenti all'interno della mappa servono solo a evidenziare l'unico fattore di cambiamento qui presente: lo spostamento dell'accento verso il completamento effettivo del gioco (che per essere tale deve addirittura arrivare alla percentuale del 105%, con ritrovamento di personaggi, bonus, oggetti e mezzi di trasporto diabolicamente nascosti tra decine e decine di aree convenzionali e 'location' nascoste).
Questo rende più plausibile la durata di un gioco che in sé e per sé è forse leggermente meno denso dei predecessori, malgrado la quarantina di livelli standard concessi e l'introduzione di nuovi nemici, ostacoli e difficoltà di vario tipo, qualcuna francamente irritante. Ancora una volta, però, nulla che si distacchi molto da quanto visto in precedenza, con una presenza ridondante di sottogiochi, letterine, barili, palloni, segreti, 'banana point', suggeritori e animali aiutanti, solo che in questo caso quasi tutto è volontariamente impostato in maniera più impervia, come quando bisogna eliminare dei guardiani anche per appropriarsi delle lettere bonus. 'More of the same', insomma; solo che la forbice tra la semplice chiusura del gioco e il suo totale completamento qui è davvero evidente, il che spinge il giocatore, quasi per istinto, a raggiungere percentuali finali sempre più elevate. Il tutto è accompagnato dalla stessa fantastica grafica dei prequel, realizzata da Rare mediante il Mode 6 del Super Nintendo e imitante la renderizzazione e il 3D promessi dal Nintendo 64 e realizzati in sala giochi con il celebre Killer Istinct. Anche la qualità audio resta identica a prima, almeno tecnicamente parlando. Sia l'ambientazione scenografica, sia la composizione dei temi musicali sembrano però meno ispirate del solito e questo resta uno dei lati deboli di tutto il progetto. Peraltro anche l'ennesima assenza di Donkey Kong (i protagonisti qui sono Dixie e Kiddy) continua ad apparirmi incomprensibile e, comunque, a rappresentare un handicap evitabile. Il team anglo-giapponese, però, quello che doveva fare lo ha fatto: realizzare un platform seguendo alla lettera il manualetto del 'Miyamoto touch' (e non è poco). Tutti gli obiettivi, in questo senso, sono stati raggiunti: grafica sorprendente, personaggi fortemente caratterizzati, giocabilità immediata, dettagli (anche secondari) curati, estrema varietà, curva della difficoltà bene aggiustata e l'illusione di dover ricorrere anche al cervello.
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