Bisboch ha una grande forza: un passato vacuo, inutile
e decadente, che gli permette di vivere anche il presente,
e presumibilmente anche il futuro, in modo vacuo, inutile
e decadente. Ulteriormente provato dalla profonda consapevolezza
di tutto ciò, Bisboch vive in un limbo simile a una reverie
proustiana, ma con meno madeleine e molta più carne avariata nel
frigo, perché il tempo passa, Bisboch, e tu ancora qua con 'sti
retrogiochini del menga.
Commodore 64
Boulder Dash
First Star Software | Peter Liepa | Chris Gray
13 04 2012
La crescita e l'invecchiamento comportano tanti mutamenti, ed è peculiare come gran parte di questi mutamenti derivi da due fattori: una sempre maggiore stanchezza e un sempre minore tempo.
Quand'ero piccolo, invece, non ero mai stanco e avevo secchiate di tempo libero, anche perché i compiti per casa erano sempre ridicole facezie. Ricordo quei pomeriggi come una dimensione senza tempo, in cui gli stacchi erano determinati puramente dall'alternanza di differenti spazi ludici: la strada, i boschi, il salotto, il salotto del mio amico, il bar del rione con Gyruss. Tutti siamo stati eroi, nei luoghi della nostra infanzia. Tutti. Arrivava l'ora di cena e tornavamo ad essere oggetti anagrafici, con una data di nascita e delle madri che avevano preparato la pasta e tu che eri sempre in ritardo e con le mani ancora da lavare quando infine ti sedevi a tavola. Ma poi il giorno dopo tornava lo spazio ludico senza tempo. Da metà anni Ottanta in poi, la più fulgida di queste dimensioni era quella del Commodore 64. (In sala giochi, invero, le regole erano differenti, perché il rapporto gettone/tempo giocato era drammatico, e infatti quella era la strada verso l'età adulta).
Nello spazio ludico senza tempo del Commodore 64 dell'infanzia non contava, salvo momenti memorabili, 'finire' un gioco. Anche perché molti giochi non avevano fine. Contava invece 'pascolare' in questo o quel gioco. Trovarsi tra le piattaforme di Bruce Lee. Trovarsi sulle impalcature di Donkey o su per le travi metalliche di Squish'em. Il posto dove ho pascolato più a lungo è però il dedalo di caverne che compone Boulder Dash. O, come lo si conosceva nell'epoca delle cassettine pirata da edicola, Caduta Massi. Traduzione efficacissima, didascalica, se volete, ma oh, tutto ruotava attorno a quei massi che cadevano. Chi se ne era uscito fuori, con quell'idea di game design? Mr. Do!? Dig Dug? Tant'è: l'idea di potersi muovere su assi ortogonali come se non esistesse la gravità, ma allo stesso tempo trovarsi in uno scenario pieno di massi che della gravità risentono eccome è assolutamente geniale. È tutta lì la tensione ludica di Caduta Massi. Muoversi come un Pac-Man in un labirinto pieno di oggetti che cadono, manco fossimo in Donkey Kong. Roba che cozza con qualsiasi rappresentazione troppo realistica, e infatti tutte le versioni recenti di Caduta Massi sono fastidiose nella loro grafica foss'anche soltanto pacioccosa.
Tutto ciò che serve e che può essere tollerato è là, nel primo Caduta Massi. Grezzo, brutale, ma evidentemente pensato nei minimi dettagli, fino al protagonista Rockford che si produce in una divertente animazione 'idle' quando non lo si muove per un po', battendo il piedino con aria seccata. E poi via a raccogliere diamanti. A spostare terriccio. A evitare piogge di macigni letali, che facevano sentire tutta la loro pesantezza come in nessun gioco all'epoca. Perché in Dig Dug o Mr. Do! si fanno cadere al massimo, toh, due mele/massi alla volta. Qui no. Qui togliendo un pezzo di terriccio si può scatenare una reazione a catena che svuota metà livello superiore e riempie metà livello inferiore. Colossale, epocale. E tutto ciò al servizio di un rompicapo, dinamico finché si vuole, ma pur sempre un dannato rompicapo, soprattutto quando si avanza nei livelli e i diamanti vanno ottenuti schiacciando le farfalle, ergo studiando tattiche precise per convogliare gli avversari verso la nostra trappola di rocce. Sarebbe bastato questo ma no, Chris Gray e (soprattutto) Peter Liepa ci hanno messo pure dei bonus stage, delle variazioni sul tema, degli avversari inquietanti come l'ameba, che continua ad espandersi finché non la si circonda tutta di massi, trasformando ogni sua unità spaziale in diamante. E che piacere notare quel guizzo di random tanto amato dalla scuola americana - la propagazione dell'ameba, pur seguendo un rate fisso, avveniva lungo direzioni sempre differenti. Così come i rumori bianchi di macigni e diamanti, modulati su note casuali per creare una minimale sinfonia di musica concreta.
Ho trentotto anni e non ho mai finito Caduta Massi. Ci sono andato molto vicino su Game Boy, attorno al 1992, fallendo per consunzione di batteria. Da allora non ci ho più provato, a finirlo. Mi accontento di tornare a pascolarci ogni tanto, rigorosamente su uno dei miei Commodore 64, rigorosamente con titolo posticcio, Caduta Massi. Certo, usciti dalla bolla ludica senza tempo è più pressante la sensazione di essere oramai cresciuti, di essere totalmente incastrati in un flusso temporale, di essere in sostanza così tanto più vicini alla morte rispetto a un trentennio prima, vada come vada. Ma finché continuerà il mio transito su questa terra, sarà bello scavarci dentro, nella terra, alla ricerca di diamanti, alla ricerca di massi cadenti. Dall'esterno potrebbe anche sembrare una fuga puerile. È invece proprio ricordandomi di quando ero un bambino immortale che io trovo il coraggio di sorridere alla vita e alla morte.
[Bisboch]