Nintendo Super NES
Illusion of Time
Nintendo | Enix | Quintet
05 01 2011
Those were the days, my friend. Natale novantaquattro: novità mirabolanti per le nostre consoline, riletture solo a margine e addirittura i primi Saturn e PlayStation nei negozi. Altro che questo, di Natale, con il quinto Gran Turismo a difendere quasi da solo il fortino PS3 (ecchepalle! Vogliamo dirlo che dopo anni di gestazione il rivale Hot Pursuit finisce per essere più divertente?) e la concessione di un nuovissimo Donkey Kong, che però non può che richiamare proprio quei giorni. Insomma, fine 94. Come da pubblicità sul vecchio Electronic Gaming Monthly, il piano era semplice: mentre i nipotini disintegravano le poesie imparate a scuola, gli zii intonavano le carole, il babbo beccava un colpo di sonno, ci si conquistava il televisore grosso e ci si buttava sul nuovo NHL Hockey, sul secondo FIFA Soccer, su Final Fantasy III, Shining Force 2, Donkey Kong Country, sul quarto Sonic, su Phantasy Star IV (vabbè, c'erano più soldi, ma i giochi ce li pure prestavano). Un posto a parte per Illusion of Gaia (questo il titolo nordamericano di Illusion of Time, giunto poi in Europa solo nella primavera del 1995), uscito poco prima in USA: abbiamo avuto sempre un debole per il binomio Enix/Quintet e il debole per questa avventura in stile Zelda era ancora più debole.
Illusion of Gaia/Time lo avevamo aspettato a lungo, da quando l'anno prima su Famitsu erano partiti i primi pettegolezzi su un sequel del lontano Soul Blazer, di cui però erano incerti nome, contenuto e modalità d'uso. Enix e Quintet ai tempi comunque non perdevano un colpo e, anzi, riuscivano sempre a spostare in avanti gli standard del genere avventura: una garanzia, insomma, quasi un marchio di fabbrica a cui affidarsi senza paura. E alla prova dei fatti la sensazione, già a partire dall'artwork o addirittura dal confezionamento del libretto di Illusion of Time, era in effetti quella di una produzione al limite fisico del Super Nintendo: una delle cose migliori dell'anno, e non parlo solo di videogiochi. Tra l'altro oggi, rivisitando quel periodo in prospettiva, è ancora più facile vedere come Illusion of Time non avesse niente da invidiare al più classico degli Zelda, alla faccia dei facili paragoni puntualmente tirati fuori dalla stampa del tempo, sia per quanto riguarda la pulizia del gameplay, sia per solidità e resistenza al passare degli anni. Sedici, appunto, senza che questo ne abbia scalfito la classe: ovviamente il tratto grafico può apparire primitivo, ma, proprio come una pagina domenicale di Little Nemo o di Flash Gordon, Illusion of Time appartiene in pieno al suo tempo e proprio per questo resta nel regno delle cose apparentemente inossidabili.
Per non parlare della trama di gioco, sia in senso narrativo che di sostanza pura. La storiella di fondo, improbabile come in tutti i videogiochi (bimbetti che salvano la terra dagli effetti catastrofici di una cometa, via Torre di Babele e teschi di cristallo, con una inevitabile principessa a rompere le balle più del solito), ha però il merito di essere raccontata con un minimo di raffinatezza e anche quello di fornire il pretesto per continui viaggi tra destinazioni leggendarie, come le piramidi egizie, la grande muraglia o le rovine Inca. E se la sceneggiatura risente in qualche modo delle difficoltà incontrate nella traduzione (l'inglese utilizzato tende ad essere schematico, non fosse altro a causa della lunghezza delle frasi originali. Un bene, per noi illetterati, ma anche un handicap per dialoghi che puntavano molto sulla descrizione dei caratteri: vedi la sequenza della zattera), i meccanismi di gioco mantengono un equilibrio più unico che raro. Il mix tra combattimenti in diretta, esplorazione, level design, crescita e trasformazione del protagonista è, almeno ai miei occhi, tra i migliori mai realizzati.
L'equilibrio, rispetto ai vari Zelda, è spostato più verso l'azione e la diversificazione dei labirinti, ma per chi come me non ama la severità del 'Miyamoto touch', questo non può che essere un vantaggio. D'altro canto, grazie alla tradizionale maniacalità del team Quintet (tra i tanti presenti: Hideki Yamamoto nel ruolo di art director, l'unico ancora attivo con i Dungeon Maker per PSP; come produttori Shinji Futami e Masaya Hashimoto, già in Soul Blazer; Mariko Ohara e Moto Hagio, soggettista e character designer, incredibilmente al loro unico lavoro in questo campo), è difficile trovare un qualsiasi altro aspetto che non sia stato considerato a fondo. Gli avversari sono giustamente diversificati, i boss fanno quello che devono fare, le aree da esplorare sono enormi, gli enigmi sono numerosi ma non asfissianti, la risposta ai comandi è impeccabile e la colonna sonora non è ricchissima, ma per quello che concede è sempre ad alto livello. Il dettaglio grafico, poi, è incredibile per un gioco di quindici anni fa: il vento muove i capelli dei protagonisti, gli sprite sono lontani dal minimalismo allora imperante, i villaggi sono realistici e quando si può anche ridondanti (con tanto di ombre e trasparenze), la palette di colori è tra le più ampie mai usate su Super Nintendo, gli stessi elementi grafici 'prefabbricati' vengono usati con moderazione, tanto che la monotonia scenica di altri RPG Enix qui viene evitata quasi del tutto.
Se invece vogliamo trovare un difetto in Illusion of Time dobbiamo andarlo a cercare nella sua eccessiva linearità. Alla faccia del cast articolato, dei tentativi di approfondimento e dei contenuti distanti dalle solite 'faery tales', la narrazione viene difatti a mancare proprio nel tratto più importante dal punto di vista del gioco, e cioè nella sua funzionalità al gameplay. La storia è impiantata in modo molto rigido (troppo): la sequenza delle esplorazioni ammette poche divagazioni e nessun ritorno, e così non è difficile ritrovarsi alla fine di un labirinto con statistiche insufficienti, magari con un boss finale impossibile da affrontare solo perché si è troppo deboli. La soluzione al problema comunque esiste ed è sempre la stessa: progressione lenta e attenta, per portare il protagonista a livelli plausibili di abilità, tanto più che qui non esiste la possibilità di acquistare antidoti o talismani, come nei giochi di ruolo più classici (ma esistono per fortuna degli agguerriti alter-ego in cui trasformarsi, a seconda dei casi). Alla fine, comunque, una delle migliori produzioni di Enix (forse la migliore, via, nonostante gli squilibri): una di quelle cose, insomma, da mettere in valigia se si deve partire per un'isola deserta. In fondo il paragone con Zelda non è fuori luogo e non va necessariamente a favore del classico di Miyamoto. Il che, se permettete, è più di quanto si può si chiedere, anche oggi, fatte le debite proporzioni grafiche, a un videogioco.
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