Nintendo Super NES
Space Invaders - The Original Game
Nintendo | Taito
17 08 2008
Trenta anni. Tanti sono quelli passati dal primo incontro ravvicinato con gli alieni di Space Invaders, cazzo. Estate, quella del 1978 - così mi dicono, ma non pretenderete mica un ricordo limpido. A me sembrerebbe in realtà più quella lunga e calda del '79, e il posto una paninoteca di quelle à la page destinate a prendere piede poi, durante i folli ottanta. E per di più chi ci giocava non ero nemmeno io, ma la Monica...
E dopo trenta anni bisognerebbe celebrare a prescindere da tutto, se non altro per una questione di dignità. Insomma: i videogiochi sono un'arte oppure no? Se sì, le pietre miliari devono essere prese con la considerazione e col rispetto che si deve a un reduce centenario (gli anni non passano allo stesso modo per videogiochi e umani). Rispetto, allora: anche a costo di reprimere gli sguardi allibiti dei più giovani, ignari della rivoluzione rappresentata da quei cosi che alla Taito si ostinavano a chiamare astronavi. Prima c'era stato Pong, è vero, ma il fenomeno Space Invaders era di portata ancora più mondiale, sdoganava un genere nuovo (shooter) e traghettava i videogiochi verso lidi sconosciuti. Space Invaders, insomma, non sarà forse il progenitore dei videogiochi tutti, filologicamente parlando, ma è ancora adesso l'archetipo a cui tutti i quarantenni e oltre fanno riferimento quando di videogiochi si parla, in libri, articoli, film, canzoni o quanto altro. Leggenda metropolitana confermata: il governo giapponese si ritrovò obbligato a coniare un numero di monetine quattro volte superiore alla media, tanto fu il successo del coin-op Taito in quelle che da allora si cominciarono a definire sale giochi.
Tu, o Shrapnel, avevi allora tre o quattro anni, probabilmente avevi già trovato il modo di incontrarti con i videogiochi (!), ma non ti puoi ovviamente ricordare dello sguardo incantato di Monica di fronte a quello che era un qualcosa di nuovo che si apriva, qualcosa di mai visto in un mondo che cambiava alla velocità del lampo. A voi ormai abituati ad ogni meraviglia verrà da ridere, ma il nuovo che tanto sbalordiva era allora rappresentato da uno schermo che non era nemmeno a colori, almeno in alcuni casi: solo pellicole di cellophane colorato per ottenere un po' di variazione cromatica. E quello che oggi chiamiamo gameplay era allora costituito da semplici linee di gioco (pattern) che si ripetevano a formare uno schema. Un po' come le macchinette da gioco dei bar anni sessanta, o un po' come i flipper: schemi semplici, ma che bisognava affrontare centinaia di volte per superare una difficoltà da incubo o solo per migliorare un record.
Nello specifico, perché di questo trattiamo, celebriamo i trenta anni di Space Invaders con la versione del '94 per Super Nintendo. Ottima versione, curata dalla casa madre, fedele all'originale fino a riproporre ogni variante prodotta al tempo (più un nuovo multiplayer) e scioccamente osteggiata proprio perché riprendeva in pieno un gioco che allora sembrava datato (per grafica, lentezza di sparo, scarsa durata e totale semplicità di intenti, come se una riproduzione fedele potesse rappresentare un problema e non il contrario). Allora: perché giocare ancora a Space Invaders adesso, a distanza di ulteriori quattordici anni? Per lo stesso motivo per cui si va per mercatini alla ricerca di un vinile di Simon and Garfunkel o dei King Crimson: senso di appartenenza a un'epoca e a un genere (quello dei videogiochi in generale, per intenderci, se non altro per la questione di dignità di cui sopra) o, alla fine, per pura nostalgia. Davvero così sbagliato?
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